Casa Infestata
Traduzione Roberta Boccia/Luísa Costa Gomes
Ho vissuto a Lisbona più di due anni, in una casa al quarto piano senza ascensore, con un pagliaccio proveniente dai confini dell´Argentina, un violoncellista della Orchestra Gulbenkian ed un ragazzo che mientre non diventava sculttore lavorava alle Poste lì vicino. Le circostanze che mi portarono in quel sordido appartamento non mi permisero di essere schizzinosa nella scelta – mi ero appena separata, avevo urgentemente bisogno di un posto – e un amico mi disse che lì cercavano qualcuno per condividere le spese. Ricordo il presentimento che ebbi subito sul portone d’ingresso, ai piedi delle scale dove confluivano gli odori del cibo cucinato e della spazzatura dei vari piani. E la parola che mi venne in mente alla finestra della mia futura camera, che dava sul retro, era così povera, così desolante, che non osai dirla. Se qualche volta avessi dato ascolto ai miei presentimenti, avrei abbandonato subito la casa. Invece, rimasi.
Sotto, c’era un’autorimessa aperta ventiquattro ore. Si occupava principalmente di taxi, e s’era necessario martellare alle tre di mattina, questo si faceva con entusiasmo. Ho la sensazione di non aver visto mai il sole nel periodo in cui ho vissuto lì. Dell’aria grigia, fuligginosa, di retri sudici, chiusi in quadrato sui patii sporchi – coperti da segni circolari di vasi di piante fuori posto – ricordo solo l’eco dei lavori dell’officina e di un insolito imbianchino cantante di fado, ingaggiato dall’amministratore del palazzo per realizzare l’impossibile e che usava quella cassa di risonanza per ascoltarsi meglio. Io cercavo di scrivere il pomeriggio, accompagnata dal tremulo canto dell’imbianchino e dal martellare costante del carrozziere. E a notte inoltrata, sentivo spesso trascinare mobili al piano superiore, che non esisteva.
Cláudia era uscita di casa per un fine settimana in Spagna ed era morta in un incidente d’auto. Il marito e il figlio lasciarono la casa poco dopo e vollero affittarla. QQQ uando vi entrai, c’erano ancora i suoi libri sugli scaffali, fotografie con il marito ed il figlio e dello shampoo in bagno. Anche Cláudia scriveva e credo che arrivò a pubblicare un libro di poesie. Sul comodino c’era solo un quadernetto, manoscritto, che non ebbi la curiosità di leggere. E in un angolo, un baule di cuoio che non fui curiosa di aprire. Il telefono squillava molto e cercavano lei. Ed io dovevo riferire che era morta, nonché ascoltare lo stupore o il pianto repentino di chi telefonasse.
Mi trasferii a metà luglio, dipinsi la stanza che prima era la loro sala da pranzo e sistemai i parchi averi. Ma, essere arrivata così in una casa, dove la vita di altri si era interrotta, mentre ora che era mia in essa risuonava ancora l’eco di una vita anteriore, contornava tutte le cose in un sottile disfacimento, come quello di due ruote dentate che non hanno modo di incastrarsi. Ero al festival del cinema a Figueira da Foz a guardare film quando seppi che il figlio di Cláudia aveva avuto un incidente d’auto in Spagna, si era rotto gambe e bacino, scampando per poco alla morte. Poco dopo, non so bene se in quella stessa settimana, Vítor, il marito, nel fare un tuffo a Porto Covo, batteva su una roccia e si rompeva la colonna vertebrale. La tragedia di queste persone, quasi sconosciute, ci colpiva in una zona grigia, coinvolgendoci come se non fossimo dei meri spettatori. La Morte, nella sua rappresentazione antica con mantello e cappuccio, fuori dell’uscio ci attorniava. Adesso, passati vent’anni, sono dell’idea che non era proprio la Morte, ma forse la Coincidenza, con il suo carattere di giocho circense, rocambolesco di curiosità, che appariva lì saltando come un bambino impertinente ad un funerale. C’era già un elemento mostruoso nell’accumulo dei disastri, come se la ripetizione nella contiguità volesse elevarsi di senso, a un´altra specie di senso, che è quello della finzione. In quel caso, tanti singoli fatti si trasformavano in una costellazione fantastica dalla cui incredibilità derivava l’efficacia stessa.
Era difficile che la casa non restasse marcata da un malessere che si instillò in essa come un odore. Sono convinta che aiutò a cimentare il nostro senso di comunità, perché noi eravamo le persone alle quali era capitato di ereditare una casa infestata dalle vite che altri avevano lasciato all’improvviso. Non dico che lì ci fossero fenomeni strani e spaventosi. Eravamo noi che partivamo dal principio che il male potesse manifestarsi. C’erano le normali difficoltà della vita in comune – la sempre non equanime suddivisione dei costi delle bollette telefoniche, la pulizia delle stanze utilizzate da tutti, la riparazione e la rottura periodica degli elettrodomestici comportando un problema tale che ci fu tagliata l’acqua per più di un mese – ma queste difficoltà erano affrontate con una sproporzionata forza d’animo, una quasi abnegazione, come se tutti aspettassimo una catastrofe per osmosi, per la mera pressione del luogo. Per questo, quando ricevemmo la prima lettera del ricattatore, il mio impulso non fu fare spallucce, buttarla nella spazzatura e dimenticare la faccenda, ma prenderla così seriamente che finì per tenerci tutti occupati nelle settimane seguenti.
Cenavamo, io e Márcio, di fronte alla televisione, nella piccola sala mansardata, quando il ricattatore telefonò per dire che dovevamo scendere a prendere una lettera nella cassetta postale. Márcio, per suo carattere, posò la cornetta e continuò a mangiare. Quando dico che tutti ci aspettavamo di soffrire, escludo Márcio, il pagliaccio, che aveva già patito tutte le sofferenze in quell’eccentrico villaggio boliviano dove era nato, giurando di non tornarvi mai più. La lettera, portata su in casa da Paulo e non affrancata, era indirizzata a Vítor Moreira. Scritta a mano a lettere maiuscole, conteneva una richiesta di 15 milioni di scudi da sborsare entro il venerdì di quella settimana, per non divulgare un qualche segreto del passato. La lettera alludeva ad attività occorse proprio in quella casa. Il ricattatore si rivolgeva a Vítor Moreira riportandone il numero della carta d’identità e suggeriva che, se avesse voluto continuare a farsi passare per quello che non era, avrebbe dovuto pagare la somma in scudi richiesta, l’equivalente, in pratica, di 100.000 dollari. Seguivano minacce di rappresaglia contro «i suoi amici in Italia, in Portogallo» e in altre località, nonché la garanzia che non si trattasse di uno scherzo. Concludeva chiedendo di mantenere la calma. Insieme alla lettera c’era, piegato, il prospetto del Banco Ambrosiano.
Vítor Moreira giaceva in un letto dell’Ospedale S. José con due viti piantate nel cranio. Era così pieno di sedativi che gli avrebbe fatto poca differenza quella o un’altra qualsiasi identità. Privo di parola, sapevamo che era completamente paralizzato e senza prospettive di recupero. Immaginarlo così e per di più perseguitato da qualcuno che, ovviamente, era all’oscuro della sua situazione di salute, ci creò un’angoscia ulteriore. Quasi nessun’altra cosa mette più paura di un criminale incompetente. Era chiaro che non era il ricattatore ad aver architettato il crimine e che ignorava sia la situazione di Vítor Moreira, sia, in relazione a quest’ultimo, la nostra assoluta estraneità, essendo per giunta inquilini di una casa di cui il surriferito non riusciva più a pagare l’affitto. E inquilini in nulla invischiati, arrivati in quella casa a seguito di trascorsi dovuti al caso o alla sfortuna. Forse il tutto poteva essere opera di un poliziotto impulsivo, intenzionato a trovare il modo per arrotondare la sua quattordicesima, o di qualche maniaco affetto da sue particolari morbosità. Paulo s’affretto a mettere il chiavistello alla porta della cucina che dava sul cortile di dietro e che non chiudevamo mai. Márcio si disinteressò d’immediato della cosa e andò a letto (la vita per lui consisteva solo nel dormire e nel prendere il sole sul terrazzo, avvolto in coperte, lasciando visibile solo il viso, come un vecchio indio tribale lasciato a morire su un’alta montagna).
Io non conoscevo ancora, per lo meno nella vita adulta – al di fuori del necessario apprendimento dei protocolli dell’amore romantico – questo sentimento di radicamento a una realtà aliena, di convenzioni ben determinate, quasi inscenata. Era come un romanzo poliziesco, un film ricco di suspense e questo, in un certo modo, interrompeva o mandava in corto-circuito il vivere. Ora, c’era stata recapitata una lettera malevole che non era diretta a noi, non sapevamo a chi rivolgerci. Cosicché, fino alla fine della settimana, parcheggiati tra il primo e il secondo capitolo, avremmo vissuto l’incertezza circa lo sviluppo dell’intreccio. Cioè, eravamo ostaggi del nostro modo di leggere e, soprattutto, prede dell’immaginazione libresca. E mentre Márcio dormiva, Paulo prendeva tisane accompagnate da spinelli calmanti che lo rendevano criptico e anche, a partire da una certa ora, trascendentale. Jonas reagiva sempre standosene zitto. Non lo conoscevamo abbastanza da distinguere i diversi tipi di silenzio con il quale accoglieva le vicissitudini della vita. Capii soltanto – perché era così evidente da saltare subito agli occhi – che sbagliava meno le scale musicali quando era infelice. Come violoncellista, Jonas sorprendeva per la mancanza di dominio dello strumento. Non gli ho mai sentito suonare qualcosa di compiuto. Se riusciva a leggere bene un rigo fino alla fine, ecco che in casa si faceva un grande silenzio. M’immaginavo Paulo e Márcio, nelle rispettive camere, sospendere quel che stavano facendo ed io stessa rimanevo con la penna sospesa per aria, aspettando il gemito di Jonas; poi lui riprendeva a fare le scale musicali, in assoluto rigore e tristezza. Solo ora, alla mia mezz’età, mi rendo conto del paradosso in cui viveva.
Venerdì alle quattro e venti ricevemmo un’altra telefonata. Il termine dato dal ricattatore era alle due di pomeriggio. Avevo imposto a me stessa di non rientrare a casa fino alle quattro, ma desideravo terminare un racconto, ed era imperativo portarlo a termine nel mio proprio ambiente. Paulo rispose e scostò la cornetta per farmi ascoltare. Era una registrazione, la stessa voce meccanica, reiterazione di minacce, reiterazione dell’annuncio che eravamo costantemente controllati, reiterazione del fatto che non valeva la pena pensare di scappare. Con una certa presenza di spirito, informai la voce registrata circa il gravissimo stato di salute di Vítor Moreira. E riagganciammo.
Il capitano Godofreddo Bolloni, delle Sezioni Speciali Anticrimine dei Carabinieri, aveva circa trentacinque anni quando giunse la prima volta a Lisbona. Vi giunse alla ricerca di un attivista delle Brigate Rosse che era latitante, già allora, nei Paesi Baschi. Il Capitano Bolloni era un uomo di bella presenza, con una folta chioma rosso fuoco e un ciuffo sugli occhi color oliva; indossava abiti bianchi di lino usati, con il panache che gli dava l’aria di appartenere a una buona famiglia e la giacca semplicemente poggiata sulle spalle. L’impressione che forniva era più quella di un playboy, atletico e bohemien, che quella di un militare in carriera.
Era nato alla fine degli anni quaranta a Napoli, figlio di un padre che sua mamma non volle o non poté identificare. Come ragazza madre fu un modello di virtù, lavoratrice, devota, quasi una monaca laica, e che aveva affrontato le maldicenze con perfetto spirito di martirio. E nonostante si dicesse sola al mondo, in fondo, aveva una famiglia che si era presa cura di lei, senza mai alcun lamento o recriminazione, ma che aveva avuto provveduto, prima che lei se ne andasse di casa, a lasciarle sempre un piatto di pasta con polpette. Questa madre riempì tutta la vita di Freddo, fino alla sua morte, che avvenne quando lui raggiunse la maggiore età. Sentì allora una grande necessità di rintracciare il vero padre e presto comprese i vantaggi che in questo gli avrebbe dato l’entrare in polizia, prima di tutto, per la prospettiva panoramica. Dalla madre, non aveva ricevuto nessuna informazione rilevante, eccetto quella generica che gli uomini fossero tutti uguali, egoisti, irrispettosi, avidi e donnaioli. Dunque, si poté basare solo su congetture. I Bolloni dell’elenco telefonico si rivelarono tutti padri improbabili. Cercò, per lo meno, di sapere, da altri membri della famiglia, da dove provenisse il suo cognome, ma si imbatté in un quadro esasperante di etimologie fantasiose. Alcuni dicevano che discendeva dal termine bollo per il fatto che l’uomo lavorasse alle Poste o fosse un funzionario pubblico; altri che fosse una forma corrotta di Bologna, a indicare, così, la sua provenienza. Mentre le sue zie e cugine discutevano tra di loro se alla fine non fosse Bellone il cognome che la madre gli aveva dato per essere lui così bello e, quindi, senza nessuna relazione con quello del padre. Queste riunioni, nel corso delle quali i venti membri della famiglia si scambiavano, con toni gridati, le loro speculazioni, sconfortavano al massimo il giovane Freddo. Non li amava. Manteneva con loro le relazioni strettamente ufficiali delle feste, comparendovi, senza dare a esse grande rilievo, una volta su tre. La madre sempre fu il suo punto di riferimento, il suo sostegno, ritrovandosi, dopo la sua scomparsa, alle prese con un insieme caotico di ignoranti. Ma insistette, incotrandoli uno ad uno, per tentare di ricostruire con chi la madre avesse avuto dei contatti al tempo del suo concepimento. Si rese conto con tristezza, tuttavia, che, nonostante vivessero letteralmente quasi ammonticchiati l’uno sopra l’altro, conoscessero poco i fatti. Sostanzialmente, le vecchie zie protendevano verso le ipotesi romantiche di un amico d’infanzia «che sempre aveva avuto un debole lei», costretto alla fine, però, a sposare un’altra donna, la quale nel frattempo era rimasta incinta per «incastrarlo»; o di un perfetto sconosciuto che le aveva promesso mari e monti, per poi abbandonarla nel letto ancora caldo una volta consumato l’atto. Nessuno di questi rubacuori aveva nome o recapito.
Volere, tuttavia, è potere e Freddo Bolloni riuscì a ricostruire la vita della madre nel corso del 1948, con dati sufficienti che limitavano a tre possibilità credibili. La prima era quella di un sarto, riservato e solitario, Tiziano Lamenti, che una sera l’aveva invitata a cena, andando a prenderla in auto per poi riportarla a casa intorno alle undici; questi si sarebbe suicidato nel 1954, a causa dei sospetti che lo volevano omosessuale. La seconda possibilità era quella di un individuo conosciuto semplicemente come Zitto, un mezzo deficiente, muto, addetto al caricamento della verdura al mercato cittadino con risultati negativi al massimo, un miserabile che la madre di Bolloni protesse sempre, anche quando Zitto fu arrestato e malmenato nella caserma dei Carabinieri, accusato di molestie nei confronti di una signora. (Nel frattempo, mentre indagava su questo Zitto, Bolloni s’imbatté nel nome di Freddo Ridde, il quale aveva trascorso insieme al primo la stessa notte in carcere; ebbene, quel nome, così prossimo, relativamente alla grafia del diminutivo, al suo, gli rimase impresso da qualche parte nella memoria). La terza possibilità era quella di un ingegnere che avrebbe affittato per alcuni mesi una stanza al piano superiore, un certo Montegni o Montagna o Montevecchio – una delle zie diceva che il suo nome fosse Pontolio – e che alcuni consideravano simpatico e di bell’aspetto, ossequioso e incapace di mettere incinta una ragazza, mentre altri storcevano gli occhi, definendolo un sornione, senza però addurre alcuna prova.
La ricerca del vero padre lo tenne impegnato dai ventidue ai trentadue anni e non portò ad alcuna soluzione. Percorse palmo a palmo l’Italia, esaminando registri ed incomodando vecchie in parrocchie remote. Loro gli davano informazioni, il più delle volte irrilevanti, lusingate dal suo interesse. Agli inizi degli anni ottanta decise di abbandonare le ricerche. La loro conclusione, intanto, lo portò a un crescente coinvolgimento nella politica del paese e a una conversione religiosa. A trentacinque anni, quindi, era già monarchico e cattolico arcaicizzante, difendeva, con toni urlati, alla riunione settimanale del suo gruppo di attivisti, il ritorno della messa in latino, la deportazione delle abortiste in Abissinia e la castrazione dei pervertiti sessuali. Bolloni, che non riusciva a interessarsi alle donne in quanto viventi e parlanti, si era innamorato intanto di una signora di cui non si sa nulla, se non che fosse bellissima e con cui non riuscì mai a sposarsi, né probabilmente a parlare. La teoria più recente mette in evidenza l’ipotesi che lei fosse già sposata e Bolloni difendeva l’indissolubilità del matrimonio, essendo per lui assolutamente proibito, soprattutto in presenza di figli. Da qui si era dedotto che la signora avesse per lo meno un figlio. Le indagini di Bolloni, se furono infruttuose quanto alla conclusione, non lo furono a livello d’immaginazione. Da quel momento sarebbe sorto il suo interesse per la genealogia fantasiosa, convinto, grazie a ricerche emotive che andavano in lungo e in largo, che fosse il figlio del famigerato Freddo Ridde, la furtiva anima nera dell’estrema destra, l’arcangelo di quelle ratlines attraverso cui scorrevano per il resto del mondo i nazisti dopo la guerra, e il cui nome egli aveva incontrato nella stessa prigione in cui era stato rinchiuso quello sventurato d’idiota di Zitto. È possibile che per conoscere il padre putativo si fosse approssimato a uno dei gruppi operanti all’ombra del Banco Ambrosiano, il cui scandalo e la cui denuncia man mano sarebbero venuti a conoscenza del pubblico nel 1983. Non si sa se abbia mai conosciuto Ridde in persona. Guardando le date ed i luoghi in cui avevano agito, sembra almeno probabile che Bolloni fosse stato in contatto con lui o che avesse partecipato a qualche «missione» di caccia o pulizia. Non fu mai provato il coinvolgimento di Ridde nell’assassinio sotto forma di rituale massonico di Roberto Calvi, trovato impiccato nel giugno del 1982 sotto il Blackfriars Bridge, a Londra, con le mani legate dietro la schiena e un mattone nella tasca della giacca.
Non aveva vere qualità virili, questo Freddo Bolloni. Era indiscreto, loquace e, spesso, mostrava incompatibilità con lo spirito corporativo. A volte, non sottostava alle gerarchie, era sleale e molto sfaticato. Rintracciammo, nel suo foglio di servizio, un rimprovero aggravato per essersi vantato in pubblico di torturare i prigionieri politici. Ciò era accaduto nel corso degli anni settanta, poco dopo essersi unito alla brigata di combattimento al terrorismo rosso dei Carabinieri.
Quando arrivò a Lisbona, quindi, raggiunse il massimo della maturità che gli fu possibile raggiungere come uomo e come professionista. Si innamorarono di lui tutte le donne del Tribunale Giudiziario. I compagni uomini gli perdonavano, per questo, le assenze. A Lisbona, Bolloni apprezzò soprattutto i ristoranti e le discoteche d’alto rango, e venne ad avere un legame non propriamente di amicizia, che riservava solo ai compatrioti e correligionari, ma di una profonda simpatia, con un informatore della polizia, un curioso, la cui più grande qualità era una memoria visiva infallibile. Si ricordi che di computer, nel 1984, se ne incontravano pochi nelle Università, nelle grandi imprese, nelle Istituzioni Statali e ancor meno nelle case private. Si vivevano, quindi, i primordi di questa nostra epoca e si copiava con la carta carbone tutto ciò che veniva fatto al computer. L’informatore amico di Bolloni ebbe il suo momento di gloria nel periodo in cui c’erano ancora delle riserve riguardo ai computer e fu – ne sono sicura – uno degli ultimi archivi biologici della classe degli statali. Era un uomo capace di recitare a memoria nome, indirizzo, affiliazione e numero della carta d’identità di tutti i membri effettivi e di alcuni simpatizzanti dei partiti dell’estrema sinistra, riuscendo peraltro a memorizzare matrimoni, riunioni, impatti e incontri amorosi tra simpatizzanti di partiti diversi in cui poteva celarsi la sovversione.
È chiaro che gran parte di queste informazioni era difficilmente verificabile. All’inizio degli anni ottanta, tutto cominciò a cambiare a una velocità tale che il più esperto degli informatori avrebbe avuto difficoltà a mantenersi aggiornato. L’estrema sinistra aveva esaurito la sua carica, tant’è che si addormentava maoista e si svegliava, la mattina dopo, alle porte del PPD. E tutto ciò che era accaduto prima si tinse di una certa irrealtà. Ma mentre i comuni mortali si innamoravano, si sposavano, tornavano alle proprie case e alla routine di una società normale, e nelle strade di Roma la guerra proseguiva facendo cadere, da ogni lato, molti martiri, mentre accadeva tutto ciò, a Lisbona, i terroristi assaltavano un furgone portavalori e rubavano cento mila scudi in nome dei loro ideali. Cosicché a giugno la Polizia Giudiziaria fece una perquisizione nella sede del FUP e furono arrestati più di quaranta attivisti. E quel tale curioso informatore nonché archivio vivente si trovò, da un momento all’altro, con un ottimo affare tra le mani.
Più o meno in quel periodo, mi misi paura a causa di un sogno di cui non posso raccontare nulla, tranne che era immensamente nitido e accompagnato da una convinzione profonda. Ricordava, per questo, quei sogni arcaici che visitavano gli eroi mentre dormivano, e desiderai molto il parere di qualche antico indovino o sacerdote, le cui versioni moderne di veggenti e astrologi continuo a disprezzare. Il sogno, intanto, si impose con una tale intensità, che mi mantenne sveglia come una sonnambula nel corso di alcuni giorni, ossessionata dalle sue immagini e dal significato che potevano avere. Cercai nei miei contatti prossimi qualcuno che assomigliasse a un interprete e mi ricordai che avevo lasciato in Germania un amico che, essendo assolutamente privo di cultura ed avendo letto in tutta la sua vita due libri – uno di questi era La Metamorfosi – mi aveva sorpreso, a quel tempo, con questo dono di vedere nei sogni qualcosa in più di una vana agitazione di neuroni. Gli inviai per iscritto la descrizione del mio sogno, tanto dettagliata quanto poteva esserlo, considerando che si trattava di una natura morta con pochi elementi che – fino a lì riuscivo a capirlo io stessa – facevano le veci di altri, assenti. Descrivergli per lettera il sogno mi liberò dall’ossessione e mi permise di tornare al racconto che cercavo di finire da mesi. Siccome lui ci metteva tempo a rispondere, gli telefonai e conversammo sul sogno, il quale non lo aveva in alcun modo messo in difficoltà a livello interpretativo. Le delucidazioni che mi fornì avevano tutte a che fare con quadri conosciuti – uno di questi Lezione di anatomia del Dr. Nicolaes Tulp, di Rembrandt – non per il tema, ma per gli ambienti, i colori e la posizione relativa degli oggetti. La spiegazione che mi diede del sogno, sebbene architettata e plausibile, tuttavia, non provocò in me quello shock tipico dell’impatto intimo totale di una certezza. Era un’interpretazione che rimaneva a un puro livello di verosimiglianza priva d’importanza e che, proprio per questo, mi lasciò ragionevolmente sconsolata. È che davanti a me si estendeva già la lista degli interpreti e delle interpretazioni, ciascuno più assurdo del precedente.
Senza preavviso, convocai una riunione di casa pronta a recepire senza alcuna riserva le opinioni, ovviamente contraddittorie, dei miei coinquilini. Forse avevo pensato che, essendo data per certa l’impossibilità di arrivare alla verità del significato di quel che mi succedeva, raccontarlo a Márcio, Paulo e Jonas sarebbe stata una forma, non di cammino che conducesse alla spiegazione, ma di rinforzo degli aspetti fantastici della situazione stessa. Rimasi, tuttavia, sorpresa in quanto loro ascoltarono la descrizione del sogno e il problema che gli avevo posto in un silenzio imbarazzante. Márcio sbadigliò un paio di volte e Jonas, molto colorito in volto, si torceva effettivamente le mani per la vergogna e guardava attentamente i calli che aveva nelle punte delle dita e massaggiava. Solo Paulo accolse con una certa simpatia le mie parole ma, considerando il suo commento, capii che faceva solo da eco all’imbarazzo degli altri, costretti a presenziare alla spudoratezza con cui raccontavo il mio sogno a persone con le quali semplicemente condividevo uno spazio, non avendo con loro nessun’altra intimità al di fuori del dividere l’appartamento. Fu il momento di riconoscere l’errore commesso, di fuggire afflitta nella stanza e di chiudermi a chiave dall’interno. Cercavo, tra il letto e la mensola, un punto di appoggio. Incapace di calmarmi, m’affrettai a trascrivere l’accaduto sul diario. Molto confusa, mi precipitai alla sedia che scivolò, battei con il gomito sull’angolo della scrivania, infilai la penna nell’occhio sinistro, uscii in tutta fretta, scesi le scale correndo con la mano sopra l’occhio ferito e presi un taxi per l’ospedale. Piangendo, ma senza emozione alcuna, fui introdotta nello studio dell’oculista da due infermiere insipide e solo esperte a non provocare l’ira del paziente. La dottoressa era così piccolina che non entrò subito nel mio raggio di visione. Tenendo la testa a tre quarti nella direzione del gigantesco apparecchio ottico, scorsi la macchia bianca di un camice che mi faceva cenno dallo sgabello. Nessun tipo di frase da protocollare, né nomi da apporre su schede, né fui messa a mio agio. Non era carina, né diplomatica. Mi chiese di sedermi sulla sedia di fronte a lei, e ancora da lontano, come se non volesse toccarmi, mi spruzzò nell’occhio una goccia anestetica, dicendomi, con fermezza, di stare quieta.
– Quest’occhio – disse – ha visto di recente qualcosa di molto forte.
Ed io, che detesto la parola «qualcosa» – mi causa, difatti, un aperto riflesso nel diaframma – uscii momentaneamente dalla confusione mentale per annotare che lei doveva aver usato, invece di «qualcosa» l’espressione leggermente più alta di gradazione, «una qualche cosa». Distratta dalla questione della forma, non capii che l’oculista mi aveva domandato, subito dopo, con voce più bassa, se avessi avuto da poco qualche sogno dall’immagine fissa e intensa che mi avesse causato preoccupazione. Io necessitavo di compassione, naturalmente, ma non ascoltai altro che la diagnosi. Era una lesione alla cornea, occorreva che stessi distesa di spalle durante una settimana, con l’occhio medicato con pomata al cloramfenicolo tre volte al giorno e coperto da una garza ben pressata.
Una settimana al buio consente di apprendere alcune cose. La prima è che i due occhi si muovono in sincronia e quando uno decide di guardare, l’altro è costretto ad accompagnarlo. E questo può essere molto doloroso. Condannata all’inazione, il terzo giorno sentii, infine, in una sorta di eco interiore, quello che l’oculista mi aveva detto in merito al sogno e tornai all’ospedale. Arrivare al suo studio fu ancora più semplice, munita solo di una guida e della ricevuta della visita effettuata; nei dieci minuti che aspettai nel corridoio vuoto, furono ricevuti tre disastrati che avevano appena finito di ficcarsi qualcosa negli occhi. Già sapevo che la dottoressa che cercavo sarebbe stata di servizio solo il fine settimana. L’oculista del giovedì, persona così secca che faceva appena gesti diritti e parlava da lontano allungando le dita che sottolineavano l’enunciato della ricetta (due volte al giorno per quattro giorni), mi rimproverò la mancanza di attenzione nella pressione dell’impacco come se io non fossi stata abbastanza scrupolosa ed ordinò all’infermiera di farmi una medicazione esemplare.
Fu già con una vista diversa, schiarita, che aspettai la mia oculista all’ingresso dell’ospedale, sabato mattina, passandomi davanti senza averla riconosciuta. Nello studio, mentre ero schiacciata dall’ordigno di luce e lente, mi rispose calma, che sapeva, in effetti, interpretare alcuni sogni in alcune circostanze e ciò mi rassicurò. Era una persona molto discreta, non aveva bisogno di mettersi in mostra per essere notata. Si mostrava per quel che era veramente. Le raccontai il sogno, i sentimenti che da allora vi avevo associati e la ricerca che non mi dava tregua. Seguì un silenzio, un respiro, un soffio: «Questo non so cosa possa significare – disse –. Di solito, capisco bene solo i sogni fatti a casa mia».
Nel corridoio, gli zingari sollevarono un frastuono di insulti e maledizioni al punto che non fu possibile continuare. Entrarono due uomini vestiti di nero e ad entrambi scorreva sangue dall’occhio destro. Si fermarono sulla soglia, come due toreri, molto composti, abituati al dolore, e guardavano di lato come galline, con il sopracciglio sollevato, una volta l’oculista e una volta me. Forse sarà stato per questo che i sentimenti di speranza e di perfetta fiducia che fino a quel momento avevo inspiegabilmente nutrito per lei si tinsero di una riserva, quasi di un sospetto in relazione alla sua capacità di interprete. In fin dei conti era una persona a cui capitava che si presentassero zingari in coppia, sanguinanti, e questo, di conseguenza, metteva lo studio in uno stato di pericolo; l’impressione era che lì si vivesse una situazione di allarme. L’oculista si alzò dallo sgabello. Davanti a lei, i due uomini rimasero muti e molto riverenti. Dietro, nel corridoio, dove la tribù si era fermata, si poteva sentir cadere finanche uno spillo. Capii che il rumore e il sangue erano per lei una cosa ricorrente. Si occupava di loro facendo segnali, li osservò in silenzio con la lente d’ingrandimento, brusca, un po’ imbronciata, come se fosse dispiaciuta perché non riusciva a curarli una volta per tutte. E se loro gemevano, perché li toccava in qualche punto sensibile, si fermava, spostava un po’ indietro il tronco, aspettava un secondo apparentemente distratta e tornava all’attacco.
Approfittai per svignarmela, perché già vivevo in pieno l’insicurezza in relazione a tutto quello che mi aveva riportato all’ospedale. Nel parcheggio, manovrando con difficoltà la vettura per non colpire nessuno degli ostacoli presenti, sentivo, per proteggermi, che alla fine il sogno forse non avesse grande importanza, che si spiegava in definitiva solo per qualche ricordo diurno, e che, adesso che l’occhio vedeva e sembrava adattarsi di nuovo alla sua funzione, sarebbe stato meglio dedicarmi a un’attività esterna, una ginnastica, ad aiutare gli altri, alla vita di relazione. Questa è un’idea che ha il suo fondamento, poiché sono gli stessi medici a dire che la maggior parte delle infermità finisce per sfumarsi. Col passar del tempo era svanita molta dell’intensità del sogno. E sapere che c’era chi potesse interpretarlo era già abbastanza una consolazione.
Continuai, quindi, a vivere con i miei coinquilini, e anche con rinnovato entusiasmo, cercando di stabilire altri punti di contatto al di là della mera residenza. Ci fu lì un interregno in cui si andava al cinema insieme, si incoraggiava lo scambio di amici, ma presto ognuno ritornò alla sua propria routine e ci si accontentò degli incontri occasionali alle porte del frigorifero. I sogni, intanto, non solo non si calmavano, quasi diventavano ogni volta più feroci, anche loro rinnovati, e presentando la curiosa caratteristica di avere alcuni contenuti diversi, ma sempre la stessa forma.
Ho un vago ricordo dei miei ultimi tempi nella casa infestata. E siccome sono convinta che un ricordo vago è segno di un’esperienza di caos, e dalla conseguenza induco scientificamente la causa, concludo che devono essere stati veramente confusi e sgomenti quei mesi. Credo di ricordare schermaglie, quasi conflitti, un malessere, orari studiati al minuto affinché non ci fossero incontri nel corridoio di casa. Vivere nello stesso spazio, contemplare dalla stessa prospettiva lo stesso retro, questo richiedeva protocolli passivi di revisione costante. Paulo, a primavera, si innamorò e lasciò libera la stanza, in cui, in seguito, ci fu una sequenza vertiginosa di occupanti; Jonas vinse una Borsa e scomparve da qualche parte in Europa e Márcio, comprovato che in Portogallo non si facesse carriera da pagliaccio, emigrò a Barcellona, dove lo incontrai, per pura coincidenza, in cima alla Rambla, alcuni anni dopo.
Non fu, pertanto, né per caso, né per necessità, ma per un ordine di cause ancora da identificare, che mi trovai di nuovo alla porta dello studio di Lúcia Pinheiro nel reparto di oculistica dell’ospedale. Mi sentivo come una ferrea intellettuale di sinistra che si dirige in ginocchio a Ftima in pellegrinaggio. Occupatissima, mi porse un bigliettino con l’indirizzo e disse che sarebbe stata a casa domenica mattina.
Era un quartiere normale, di ville degli anni sessanta, con alle spalle strade di media lunghezza. Le campane di una chiesa vicina suonavano, era un giorno di sole intenso, tutto sembrava in rilievo. Quando girai l’angolo la vidi uscire dal palazzo, scalza, correndo in direzione della chiesa mentre si metteva sgraziata un fazzoletto di lana nero in testa. Per i miei calcoli e la mia esperienza, sapevo quanto fosse difficile legare al mento un fazzoletto che non ha le dimensioni appropriate. E non potei fare a meno di rimanere ansiosa, nonostante la difficoltà, in fin dei conti, riguardasse solo lei.
Era vestita come una minhota, con una gonna corta e le gambe nude. La inseguii da molto vicino, per la strada, indecisa tra salire sul marciapiede o mantenermi sull’asfalto. La gonna pesante le batteva sulla piega delle gambe al ritmo della corsa. Riuscii a raggiungerla. Ancora correndo le dissi che dovevo aver fatto una nuova lesione nell’occhio e che avevo bisogno di un medico. Lei si girò, nervosa, in ritardo, con orecchini e collane intorno al collo, da cui pendeva un cuore d’oro carnoso e gozzuto come un embrione. Già ai piedi della scalinata della chiesa mi disse che in quel momento non poteva prestarmi attenzione, che doveva andare a messa, e mi chiese di aspettarla davanti alla porta di casa.
Mi sembrò, allora, evidente che avrei dovuto trasferirmi lì. Sognare in quella casa quello che ci fosse da sognare e risolvere il problema una volta per tutte. Così, chiusi la casa precedente, preparai l’essenziale in uno zaino e le bussai alla porta alla fine del giorno. Lei mi sistemò in una dependance, per non interferire con la vita di tutti i giorni. Lì stetti bene, riuscii a terminare il racconto che era fermo da mesi. Solo per questo credo che valse la pena il cambiamento. Ma i sogni si fermarono, a volte afferravo il barlume di un’immagine, una pulsazione che rimaneva dopo il risveglio, un fantasma o un altro. Un giorno sognai nitidamente la dependance in cui vivevo. Mi svegliai scoraggiata. Cercai Lucia in soggiorno e le raccontai dettagliatamente come avevo visto la chiarezza istantanea e fugace delle forme pregnanti del mio letto basso, della mensola curva di libri, della scrivania dove stava la macchina da scrivere, come se fossero nate e si staccassero dalle pareti dove erano diventate, nel tempo, evidenti e amorfe.
Lúcia ascoltava attenta, in quel modo che aveva di dedicarsi totalmente all’occupazione del presente e, alla fine, mentre io aspettavo, impaziente, il manifestarsi superiore di un’altra intelligenza, lei si mise a ridere. E chiusa a riccio nell’intimità che si era costruita negli ultimi mesi, commentò semplicemente che ero davvero sciocca.
Spesso, già in macchina e diretta verso un posto qualsiasi, mi passa per la mente che la casa in cui vivo adesso sia appena esplosa. O mi sono dimenticata il gas aperto, o l’olio è caduto nell’acqua, o la casa ha raggiunto il punto massimo di contenimento ed è scoppiata, spargendo i manoscritti tutt’intorno. Altre volte, scendendo l’ultima rampa che mi riporta a casa, e se succede, ancora più per caso, di incrociare un’ambulanza, mi viene in mente che la casa è bruciata, o brucia ancora, in questa stessa esplosione a cui non pensavo alla partenza. Oggi mi sembra che il sogno che mi spaventò non fu né predizione del futuro, né sintomo del passato, né segno dei cieli, ma la vita in se stessa che mi fece visita in quella notte.
Ho vissuto a Lisbona più di due anni, in una casa al quarto piano senza ascensore, con un pagliaccio proveniente dai confini dell´Argentina, un violoncellista della Orchestra Gulbenkian ed un ragazzo che mientre non diventava sculttore lavorava alle Poste lì vicino. Le circostanze che mi portarono in quel sordido appartamento non mi permisero di essere schizzinosa nella scelta – mi ero appena separata, avevo urgentemente bisogno di un posto – e un amico mi disse che lì cercavano qualcuno per condividere le spese. Ricordo il presentimento che ebbi subito sul portone d’ingresso, ai piedi delle scale dove confluivano gli odori del cibo cucinato e della spazzatura dei vari piani. E la parola che mi venne in mente alla finestra della mia futura camera, che dava sul retro, era così povera, così desolante, che non osai dirla. Se qualche volta avessi dato ascolto ai miei presentimenti, avrei abbandonato subito la casa. Invece, rimasi.
Sotto, c’era un’autorimessa aperta ventiquattro ore. Si occupava principalmente di taxi, e s’era necessario martellare alle tre di mattina, questo si faceva con entusiasmo. Ho la sensazione di non aver visto mai il sole nel periodo in cui ho vissuto lì. Dell’aria grigia, fuligginosa, di retri sudici, chiusi in quadrato sui patii sporchi – coperti da segni circolari di vasi di piante fuori posto – ricordo solo l’eco dei lavori dell’officina e di un insolito imbianchino cantante di fado, ingaggiato dall’amministratore del palazzo per realizzare l’impossibile e che usava quella cassa di risonanza per ascoltarsi meglio. Io cercavo di scrivere il pomeriggio, accompagnata dal tremulo canto dell’imbianchino e dal martellare costante del carrozziere. E a notte inoltrata, sentivo spesso trascinare mobili al piano superiore, che non esisteva.
Cláudia era uscita di casa per un fine settimana in Spagna ed era morta in un incidente d’auto. Il marito e il figlio lasciarono la casa poco dopo e vollero affittarla. QQQ uando vi entrai, c’erano ancora i suoi libri sugli scaffali, fotografie con il marito ed il figlio e dello shampoo in bagno. Anche Cláudia scriveva e credo che arrivò a pubblicare un libro di poesie. Sul comodino c’era solo un quadernetto, manoscritto, che non ebbi la curiosità di leggere. E in un angolo, un baule di cuoio che non fui curiosa di aprire. Il telefono squillava molto e cercavano lei. Ed io dovevo riferire che era morta, nonché ascoltare lo stupore o il pianto repentino di chi telefonasse.
Mi trasferii a metà luglio, dipinsi la stanza che prima era la loro sala da pranzo e sistemai i parchi averi. Ma, essere arrivata così in una casa, dove la vita di altri si era interrotta, mentre ora che era mia in essa risuonava ancora l’eco di una vita anteriore, contornava tutte le cose in un sottile disfacimento, come quello di due ruote dentate che non hanno modo di incastrarsi. Ero al festival del cinema a Figueira da Foz a guardare film quando seppi che il figlio di Cláudia aveva avuto un incidente d’auto in Spagna, si era rotto gambe e bacino, scampando per poco alla morte. Poco dopo, non so bene se in quella stessa settimana, Vítor, il marito, nel fare un tuffo a Porto Covo, batteva su una roccia e si rompeva la colonna vertebrale. La tragedia di queste persone, quasi sconosciute, ci colpiva in una zona grigia, coinvolgendoci come se non fossimo dei meri spettatori. La Morte, nella sua rappresentazione antica con mantello e cappuccio, fuori dell’uscio ci attorniava. Adesso, passati vent’anni, sono dell’idea che non era proprio la Morte, ma forse la Coincidenza, con il suo carattere di giocho circense, rocambolesco di curiosità, che appariva lì saltando come un bambino impertinente ad un funerale. C’era già un elemento mostruoso nell’accumulo dei disastri, come se la ripetizione nella contiguità volesse elevarsi di senso, a un´altra specie di senso, che è quello della finzione. In quel caso, tanti singoli fatti si trasformavano in una costellazione fantastica dalla cui incredibilità derivava l’efficacia stessa.
Era difficile che la casa non restasse marcata da un malessere che si instillò in essa come un odore. Sono convinta che aiutò a cimentare il nostro senso di comunità, perché noi eravamo le persone alle quali era capitato di ereditare una casa infestata dalle vite che altri avevano lasciato all’improvviso. Non dico che lì ci fossero fenomeni strani e spaventosi. Eravamo noi che partivamo dal principio che il male potesse manifestarsi. C’erano le normali difficoltà della vita in comune – la sempre non equanime suddivisione dei costi delle bollette telefoniche, la pulizia delle stanze utilizzate da tutti, la riparazione e la rottura periodica degli elettrodomestici comportando un problema tale che ci fu tagliata l’acqua per più di un mese – ma queste difficoltà erano affrontate con una sproporzionata forza d’animo, una quasi abnegazione, come se tutti aspettassimo una catastrofe per osmosi, per la mera pressione del luogo. Per questo, quando ricevemmo la prima lettera del ricattatore, il mio impulso non fu fare spallucce, buttarla nella spazzatura e dimenticare la faccenda, ma prenderla così seriamente che finì per tenerci tutti occupati nelle settimane seguenti.
Cenavamo, io e Márcio, di fronte alla televisione, nella piccola sala mansardata, quando il ricattatore telefonò per dire che dovevamo scendere a prendere una lettera nella cassetta postale. Márcio, per suo carattere, posò la cornetta e continuò a mangiare. Quando dico che tutti ci aspettavamo di soffrire, escludo Márcio, il pagliaccio, che aveva già patito tutte le sofferenze in quell’eccentrico villaggio boliviano dove era nato, giurando di non tornarvi mai più. La lettera, portata su in casa da Paulo e non affrancata, era indirizzata a Vítor Moreira. Scritta a mano a lettere maiuscole, conteneva una richiesta di 15 milioni di scudi da sborsare entro il venerdì di quella settimana, per non divulgare un qualche segreto del passato. La lettera alludeva ad attività occorse proprio in quella casa. Il ricattatore si rivolgeva a Vítor Moreira riportandone il numero della carta d’identità e suggeriva che, se avesse voluto continuare a farsi passare per quello che non era, avrebbe dovuto pagare la somma in scudi richiesta, l’equivalente, in pratica, di 100.000 dollari. Seguivano minacce di rappresaglia contro «i suoi amici in Italia, in Portogallo» e in altre località, nonché la garanzia che non si trattasse di uno scherzo. Concludeva chiedendo di mantenere la calma. Insieme alla lettera c’era, piegato, il prospetto del Banco Ambrosiano.
Vítor Moreira giaceva in un letto dell’Ospedale S. José con due viti piantate nel cranio. Era così pieno di sedativi che gli avrebbe fatto poca differenza quella o un’altra qualsiasi identità. Privo di parola, sapevamo che era completamente paralizzato e senza prospettive di recupero. Immaginarlo così e per di più perseguitato da qualcuno che, ovviamente, era all’oscuro della sua situazione di salute, ci creò un’angoscia ulteriore. Quasi nessun’altra cosa mette più paura di un criminale incompetente. Era chiaro che non era il ricattatore ad aver architettato il crimine e che ignorava sia la situazione di Vítor Moreira, sia, in relazione a quest’ultimo, la nostra assoluta estraneità, essendo per giunta inquilini di una casa di cui il surriferito non riusciva più a pagare l’affitto. E inquilini in nulla invischiati, arrivati in quella casa a seguito di trascorsi dovuti al caso o alla sfortuna. Forse il tutto poteva essere opera di un poliziotto impulsivo, intenzionato a trovare il modo per arrotondare la sua quattordicesima, o di qualche maniaco affetto da sue particolari morbosità. Paulo s’affretto a mettere il chiavistello alla porta della cucina che dava sul cortile di dietro e che non chiudevamo mai. Márcio si disinteressò d’immediato della cosa e andò a letto (la vita per lui consisteva solo nel dormire e nel prendere il sole sul terrazzo, avvolto in coperte, lasciando visibile solo il viso, come un vecchio indio tribale lasciato a morire su un’alta montagna).
Io non conoscevo ancora, per lo meno nella vita adulta – al di fuori del necessario apprendimento dei protocolli dell’amore romantico – questo sentimento di radicamento a una realtà aliena, di convenzioni ben determinate, quasi inscenata. Era come un romanzo poliziesco, un film ricco di suspense e questo, in un certo modo, interrompeva o mandava in corto-circuito il vivere. Ora, c’era stata recapitata una lettera malevole che non era diretta a noi, non sapevamo a chi rivolgerci. Cosicché, fino alla fine della settimana, parcheggiati tra il primo e il secondo capitolo, avremmo vissuto l’incertezza circa lo sviluppo dell’intreccio. Cioè, eravamo ostaggi del nostro modo di leggere e, soprattutto, prede dell’immaginazione libresca. E mentre Márcio dormiva, Paulo prendeva tisane accompagnate da spinelli calmanti che lo rendevano criptico e anche, a partire da una certa ora, trascendentale. Jonas reagiva sempre standosene zitto. Non lo conoscevamo abbastanza da distinguere i diversi tipi di silenzio con il quale accoglieva le vicissitudini della vita. Capii soltanto – perché era così evidente da saltare subito agli occhi – che sbagliava meno le scale musicali quando era infelice. Come violoncellista, Jonas sorprendeva per la mancanza di dominio dello strumento. Non gli ho mai sentito suonare qualcosa di compiuto. Se riusciva a leggere bene un rigo fino alla fine, ecco che in casa si faceva un grande silenzio. M’immaginavo Paulo e Márcio, nelle rispettive camere, sospendere quel che stavano facendo ed io stessa rimanevo con la penna sospesa per aria, aspettando il gemito di Jonas; poi lui riprendeva a fare le scale musicali, in assoluto rigore e tristezza. Solo ora, alla mia mezz’età, mi rendo conto del paradosso in cui viveva.
Venerdì alle quattro e venti ricevemmo un’altra telefonata. Il termine dato dal ricattatore era alle due di pomeriggio. Avevo imposto a me stessa di non rientrare a casa fino alle quattro, ma desideravo terminare un racconto, ed era imperativo portarlo a termine nel mio proprio ambiente. Paulo rispose e scostò la cornetta per farmi ascoltare. Era una registrazione, la stessa voce meccanica, reiterazione di minacce, reiterazione dell’annuncio che eravamo costantemente controllati, reiterazione del fatto che non valeva la pena pensare di scappare. Con una certa presenza di spirito, informai la voce registrata circa il gravissimo stato di salute di Vítor Moreira. E riagganciammo.
Il capitano Godofreddo Bolloni, delle Sezioni Speciali Anticrimine dei Carabinieri, aveva circa trentacinque anni quando giunse la prima volta a Lisbona. Vi giunse alla ricerca di un attivista delle Brigate Rosse che era latitante, già allora, nei Paesi Baschi. Il Capitano Bolloni era un uomo di bella presenza, con una folta chioma rosso fuoco e un ciuffo sugli occhi color oliva; indossava abiti bianchi di lino usati, con il panache che gli dava l’aria di appartenere a una buona famiglia e la giacca semplicemente poggiata sulle spalle. L’impressione che forniva era più quella di un playboy, atletico e bohemien, che quella di un militare in carriera.
Era nato alla fine degli anni quaranta a Napoli, figlio di un padre che sua mamma non volle o non poté identificare. Come ragazza madre fu un modello di virtù, lavoratrice, devota, quasi una monaca laica, e che aveva affrontato le maldicenze con perfetto spirito di martirio. E nonostante si dicesse sola al mondo, in fondo, aveva una famiglia che si era presa cura di lei, senza mai alcun lamento o recriminazione, ma che aveva avuto provveduto, prima che lei se ne andasse di casa, a lasciarle sempre un piatto di pasta con polpette. Questa madre riempì tutta la vita di Freddo, fino alla sua morte, che avvenne quando lui raggiunse la maggiore età. Sentì allora una grande necessità di rintracciare il vero padre e presto comprese i vantaggi che in questo gli avrebbe dato l’entrare in polizia, prima di tutto, per la prospettiva panoramica. Dalla madre, non aveva ricevuto nessuna informazione rilevante, eccetto quella generica che gli uomini fossero tutti uguali, egoisti, irrispettosi, avidi e donnaioli. Dunque, si poté basare solo su congetture. I Bolloni dell’elenco telefonico si rivelarono tutti padri improbabili. Cercò, per lo meno, di sapere, da altri membri della famiglia, da dove provenisse il suo cognome, ma si imbatté in un quadro esasperante di etimologie fantasiose. Alcuni dicevano che discendeva dal termine bollo per il fatto che l’uomo lavorasse alle Poste o fosse un funzionario pubblico; altri che fosse una forma corrotta di Bologna, a indicare, così, la sua provenienza. Mentre le sue zie e cugine discutevano tra di loro se alla fine non fosse Bellone il cognome che la madre gli aveva dato per essere lui così bello e, quindi, senza nessuna relazione con quello del padre. Queste riunioni, nel corso delle quali i venti membri della famiglia si scambiavano, con toni gridati, le loro speculazioni, sconfortavano al massimo il giovane Freddo. Non li amava. Manteneva con loro le relazioni strettamente ufficiali delle feste, comparendovi, senza dare a esse grande rilievo, una volta su tre. La madre sempre fu il suo punto di riferimento, il suo sostegno, ritrovandosi, dopo la sua scomparsa, alle prese con un insieme caotico di ignoranti. Ma insistette, incotrandoli uno ad uno, per tentare di ricostruire con chi la madre avesse avuto dei contatti al tempo del suo concepimento. Si rese conto con tristezza, tuttavia, che, nonostante vivessero letteralmente quasi ammonticchiati l’uno sopra l’altro, conoscessero poco i fatti. Sostanzialmente, le vecchie zie protendevano verso le ipotesi romantiche di un amico d’infanzia «che sempre aveva avuto un debole lei», costretto alla fine, però, a sposare un’altra donna, la quale nel frattempo era rimasta incinta per «incastrarlo»; o di un perfetto sconosciuto che le aveva promesso mari e monti, per poi abbandonarla nel letto ancora caldo una volta consumato l’atto. Nessuno di questi rubacuori aveva nome o recapito.
Volere, tuttavia, è potere e Freddo Bolloni riuscì a ricostruire la vita della madre nel corso del 1948, con dati sufficienti che limitavano a tre possibilità credibili. La prima era quella di un sarto, riservato e solitario, Tiziano Lamenti, che una sera l’aveva invitata a cena, andando a prenderla in auto per poi riportarla a casa intorno alle undici; questi si sarebbe suicidato nel 1954, a causa dei sospetti che lo volevano omosessuale. La seconda possibilità era quella di un individuo conosciuto semplicemente come Zitto, un mezzo deficiente, muto, addetto al caricamento della verdura al mercato cittadino con risultati negativi al massimo, un miserabile che la madre di Bolloni protesse sempre, anche quando Zitto fu arrestato e malmenato nella caserma dei Carabinieri, accusato di molestie nei confronti di una signora. (Nel frattempo, mentre indagava su questo Zitto, Bolloni s’imbatté nel nome di Freddo Ridde, il quale aveva trascorso insieme al primo la stessa notte in carcere; ebbene, quel nome, così prossimo, relativamente alla grafia del diminutivo, al suo, gli rimase impresso da qualche parte nella memoria). La terza possibilità era quella di un ingegnere che avrebbe affittato per alcuni mesi una stanza al piano superiore, un certo Montegni o Montagna o Montevecchio – una delle zie diceva che il suo nome fosse Pontolio – e che alcuni consideravano simpatico e di bell’aspetto, ossequioso e incapace di mettere incinta una ragazza, mentre altri storcevano gli occhi, definendolo un sornione, senza però addurre alcuna prova.
La ricerca del vero padre lo tenne impegnato dai ventidue ai trentadue anni e non portò ad alcuna soluzione. Percorse palmo a palmo l’Italia, esaminando registri ed incomodando vecchie in parrocchie remote. Loro gli davano informazioni, il più delle volte irrilevanti, lusingate dal suo interesse. Agli inizi degli anni ottanta decise di abbandonare le ricerche. La loro conclusione, intanto, lo portò a un crescente coinvolgimento nella politica del paese e a una conversione religiosa. A trentacinque anni, quindi, era già monarchico e cattolico arcaicizzante, difendeva, con toni urlati, alla riunione settimanale del suo gruppo di attivisti, il ritorno della messa in latino, la deportazione delle abortiste in Abissinia e la castrazione dei pervertiti sessuali. Bolloni, che non riusciva a interessarsi alle donne in quanto viventi e parlanti, si era innamorato intanto di una signora di cui non si sa nulla, se non che fosse bellissima e con cui non riuscì mai a sposarsi, né probabilmente a parlare. La teoria più recente mette in evidenza l’ipotesi che lei fosse già sposata e Bolloni difendeva l’indissolubilità del matrimonio, essendo per lui assolutamente proibito, soprattutto in presenza di figli. Da qui si era dedotto che la signora avesse per lo meno un figlio. Le indagini di Bolloni, se furono infruttuose quanto alla conclusione, non lo furono a livello d’immaginazione. Da quel momento sarebbe sorto il suo interesse per la genealogia fantasiosa, convinto, grazie a ricerche emotive che andavano in lungo e in largo, che fosse il figlio del famigerato Freddo Ridde, la furtiva anima nera dell’estrema destra, l’arcangelo di quelle ratlines attraverso cui scorrevano per il resto del mondo i nazisti dopo la guerra, e il cui nome egli aveva incontrato nella stessa prigione in cui era stato rinchiuso quello sventurato d’idiota di Zitto. È possibile che per conoscere il padre putativo si fosse approssimato a uno dei gruppi operanti all’ombra del Banco Ambrosiano, il cui scandalo e la cui denuncia man mano sarebbero venuti a conoscenza del pubblico nel 1983. Non si sa se abbia mai conosciuto Ridde in persona. Guardando le date ed i luoghi in cui avevano agito, sembra almeno probabile che Bolloni fosse stato in contatto con lui o che avesse partecipato a qualche «missione» di caccia o pulizia. Non fu mai provato il coinvolgimento di Ridde nell’assassinio sotto forma di rituale massonico di Roberto Calvi, trovato impiccato nel giugno del 1982 sotto il Blackfriars Bridge, a Londra, con le mani legate dietro la schiena e un mattone nella tasca della giacca.
Non aveva vere qualità virili, questo Freddo Bolloni. Era indiscreto, loquace e, spesso, mostrava incompatibilità con lo spirito corporativo. A volte, non sottostava alle gerarchie, era sleale e molto sfaticato. Rintracciammo, nel suo foglio di servizio, un rimprovero aggravato per essersi vantato in pubblico di torturare i prigionieri politici. Ciò era accaduto nel corso degli anni settanta, poco dopo essersi unito alla brigata di combattimento al terrorismo rosso dei Carabinieri.
Quando arrivò a Lisbona, quindi, raggiunse il massimo della maturità che gli fu possibile raggiungere come uomo e come professionista. Si innamorarono di lui tutte le donne del Tribunale Giudiziario. I compagni uomini gli perdonavano, per questo, le assenze. A Lisbona, Bolloni apprezzò soprattutto i ristoranti e le discoteche d’alto rango, e venne ad avere un legame non propriamente di amicizia, che riservava solo ai compatrioti e correligionari, ma di una profonda simpatia, con un informatore della polizia, un curioso, la cui più grande qualità era una memoria visiva infallibile. Si ricordi che di computer, nel 1984, se ne incontravano pochi nelle Università, nelle grandi imprese, nelle Istituzioni Statali e ancor meno nelle case private. Si vivevano, quindi, i primordi di questa nostra epoca e si copiava con la carta carbone tutto ciò che veniva fatto al computer. L’informatore amico di Bolloni ebbe il suo momento di gloria nel periodo in cui c’erano ancora delle riserve riguardo ai computer e fu – ne sono sicura – uno degli ultimi archivi biologici della classe degli statali. Era un uomo capace di recitare a memoria nome, indirizzo, affiliazione e numero della carta d’identità di tutti i membri effettivi e di alcuni simpatizzanti dei partiti dell’estrema sinistra, riuscendo peraltro a memorizzare matrimoni, riunioni, impatti e incontri amorosi tra simpatizzanti di partiti diversi in cui poteva celarsi la sovversione.
È chiaro che gran parte di queste informazioni era difficilmente verificabile. All’inizio degli anni ottanta, tutto cominciò a cambiare a una velocità tale che il più esperto degli informatori avrebbe avuto difficoltà a mantenersi aggiornato. L’estrema sinistra aveva esaurito la sua carica, tant’è che si addormentava maoista e si svegliava, la mattina dopo, alle porte del PPD. E tutto ciò che era accaduto prima si tinse di una certa irrealtà. Ma mentre i comuni mortali si innamoravano, si sposavano, tornavano alle proprie case e alla routine di una società normale, e nelle strade di Roma la guerra proseguiva facendo cadere, da ogni lato, molti martiri, mentre accadeva tutto ciò, a Lisbona, i terroristi assaltavano un furgone portavalori e rubavano cento mila scudi in nome dei loro ideali. Cosicché a giugno la Polizia Giudiziaria fece una perquisizione nella sede del FUP e furono arrestati più di quaranta attivisti. E quel tale curioso informatore nonché archivio vivente si trovò, da un momento all’altro, con un ottimo affare tra le mani.
Più o meno in quel periodo, mi misi paura a causa di un sogno di cui non posso raccontare nulla, tranne che era immensamente nitido e accompagnato da una convinzione profonda. Ricordava, per questo, quei sogni arcaici che visitavano gli eroi mentre dormivano, e desiderai molto il parere di qualche antico indovino o sacerdote, le cui versioni moderne di veggenti e astrologi continuo a disprezzare. Il sogno, intanto, si impose con una tale intensità, che mi mantenne sveglia come una sonnambula nel corso di alcuni giorni, ossessionata dalle sue immagini e dal significato che potevano avere. Cercai nei miei contatti prossimi qualcuno che assomigliasse a un interprete e mi ricordai che avevo lasciato in Germania un amico che, essendo assolutamente privo di cultura ed avendo letto in tutta la sua vita due libri – uno di questi era La Metamorfosi – mi aveva sorpreso, a quel tempo, con questo dono di vedere nei sogni qualcosa in più di una vana agitazione di neuroni. Gli inviai per iscritto la descrizione del mio sogno, tanto dettagliata quanto poteva esserlo, considerando che si trattava di una natura morta con pochi elementi che – fino a lì riuscivo a capirlo io stessa – facevano le veci di altri, assenti. Descrivergli per lettera il sogno mi liberò dall’ossessione e mi permise di tornare al racconto che cercavo di finire da mesi. Siccome lui ci metteva tempo a rispondere, gli telefonai e conversammo sul sogno, il quale non lo aveva in alcun modo messo in difficoltà a livello interpretativo. Le delucidazioni che mi fornì avevano tutte a che fare con quadri conosciuti – uno di questi Lezione di anatomia del Dr. Nicolaes Tulp, di Rembrandt – non per il tema, ma per gli ambienti, i colori e la posizione relativa degli oggetti. La spiegazione che mi diede del sogno, sebbene architettata e plausibile, tuttavia, non provocò in me quello shock tipico dell’impatto intimo totale di una certezza. Era un’interpretazione che rimaneva a un puro livello di verosimiglianza priva d’importanza e che, proprio per questo, mi lasciò ragionevolmente sconsolata. È che davanti a me si estendeva già la lista degli interpreti e delle interpretazioni, ciascuno più assurdo del precedente.
Senza preavviso, convocai una riunione di casa pronta a recepire senza alcuna riserva le opinioni, ovviamente contraddittorie, dei miei coinquilini. Forse avevo pensato che, essendo data per certa l’impossibilità di arrivare alla verità del significato di quel che mi succedeva, raccontarlo a Márcio, Paulo e Jonas sarebbe stata una forma, non di cammino che conducesse alla spiegazione, ma di rinforzo degli aspetti fantastici della situazione stessa. Rimasi, tuttavia, sorpresa in quanto loro ascoltarono la descrizione del sogno e il problema che gli avevo posto in un silenzio imbarazzante. Márcio sbadigliò un paio di volte e Jonas, molto colorito in volto, si torceva effettivamente le mani per la vergogna e guardava attentamente i calli che aveva nelle punte delle dita e massaggiava. Solo Paulo accolse con una certa simpatia le mie parole ma, considerando il suo commento, capii che faceva solo da eco all’imbarazzo degli altri, costretti a presenziare alla spudoratezza con cui raccontavo il mio sogno a persone con le quali semplicemente condividevo uno spazio, non avendo con loro nessun’altra intimità al di fuori del dividere l’appartamento. Fu il momento di riconoscere l’errore commesso, di fuggire afflitta nella stanza e di chiudermi a chiave dall’interno. Cercavo, tra il letto e la mensola, un punto di appoggio. Incapace di calmarmi, m’affrettai a trascrivere l’accaduto sul diario. Molto confusa, mi precipitai alla sedia che scivolò, battei con il gomito sull’angolo della scrivania, infilai la penna nell’occhio sinistro, uscii in tutta fretta, scesi le scale correndo con la mano sopra l’occhio ferito e presi un taxi per l’ospedale. Piangendo, ma senza emozione alcuna, fui introdotta nello studio dell’oculista da due infermiere insipide e solo esperte a non provocare l’ira del paziente. La dottoressa era così piccolina che non entrò subito nel mio raggio di visione. Tenendo la testa a tre quarti nella direzione del gigantesco apparecchio ottico, scorsi la macchia bianca di un camice che mi faceva cenno dallo sgabello. Nessun tipo di frase da protocollare, né nomi da apporre su schede, né fui messa a mio agio. Non era carina, né diplomatica. Mi chiese di sedermi sulla sedia di fronte a lei, e ancora da lontano, come se non volesse toccarmi, mi spruzzò nell’occhio una goccia anestetica, dicendomi, con fermezza, di stare quieta.
– Quest’occhio – disse – ha visto di recente qualcosa di molto forte.
Ed io, che detesto la parola «qualcosa» – mi causa, difatti, un aperto riflesso nel diaframma – uscii momentaneamente dalla confusione mentale per annotare che lei doveva aver usato, invece di «qualcosa» l’espressione leggermente più alta di gradazione, «una qualche cosa». Distratta dalla questione della forma, non capii che l’oculista mi aveva domandato, subito dopo, con voce più bassa, se avessi avuto da poco qualche sogno dall’immagine fissa e intensa che mi avesse causato preoccupazione. Io necessitavo di compassione, naturalmente, ma non ascoltai altro che la diagnosi. Era una lesione alla cornea, occorreva che stessi distesa di spalle durante una settimana, con l’occhio medicato con pomata al cloramfenicolo tre volte al giorno e coperto da una garza ben pressata.
Una settimana al buio consente di apprendere alcune cose. La prima è che i due occhi si muovono in sincronia e quando uno decide di guardare, l’altro è costretto ad accompagnarlo. E questo può essere molto doloroso. Condannata all’inazione, il terzo giorno sentii, infine, in una sorta di eco interiore, quello che l’oculista mi aveva detto in merito al sogno e tornai all’ospedale. Arrivare al suo studio fu ancora più semplice, munita solo di una guida e della ricevuta della visita effettuata; nei dieci minuti che aspettai nel corridoio vuoto, furono ricevuti tre disastrati che avevano appena finito di ficcarsi qualcosa negli occhi. Già sapevo che la dottoressa che cercavo sarebbe stata di servizio solo il fine settimana. L’oculista del giovedì, persona così secca che faceva appena gesti diritti e parlava da lontano allungando le dita che sottolineavano l’enunciato della ricetta (due volte al giorno per quattro giorni), mi rimproverò la mancanza di attenzione nella pressione dell’impacco come se io non fossi stata abbastanza scrupolosa ed ordinò all’infermiera di farmi una medicazione esemplare.
Fu già con una vista diversa, schiarita, che aspettai la mia oculista all’ingresso dell’ospedale, sabato mattina, passandomi davanti senza averla riconosciuta. Nello studio, mentre ero schiacciata dall’ordigno di luce e lente, mi rispose calma, che sapeva, in effetti, interpretare alcuni sogni in alcune circostanze e ciò mi rassicurò. Era una persona molto discreta, non aveva bisogno di mettersi in mostra per essere notata. Si mostrava per quel che era veramente. Le raccontai il sogno, i sentimenti che da allora vi avevo associati e la ricerca che non mi dava tregua. Seguì un silenzio, un respiro, un soffio: «Questo non so cosa possa significare – disse –. Di solito, capisco bene solo i sogni fatti a casa mia».
Nel corridoio, gli zingari sollevarono un frastuono di insulti e maledizioni al punto che non fu possibile continuare. Entrarono due uomini vestiti di nero e ad entrambi scorreva sangue dall’occhio destro. Si fermarono sulla soglia, come due toreri, molto composti, abituati al dolore, e guardavano di lato come galline, con il sopracciglio sollevato, una volta l’oculista e una volta me. Forse sarà stato per questo che i sentimenti di speranza e di perfetta fiducia che fino a quel momento avevo inspiegabilmente nutrito per lei si tinsero di una riserva, quasi di un sospetto in relazione alla sua capacità di interprete. In fin dei conti era una persona a cui capitava che si presentassero zingari in coppia, sanguinanti, e questo, di conseguenza, metteva lo studio in uno stato di pericolo; l’impressione era che lì si vivesse una situazione di allarme. L’oculista si alzò dallo sgabello. Davanti a lei, i due uomini rimasero muti e molto riverenti. Dietro, nel corridoio, dove la tribù si era fermata, si poteva sentir cadere finanche uno spillo. Capii che il rumore e il sangue erano per lei una cosa ricorrente. Si occupava di loro facendo segnali, li osservò in silenzio con la lente d’ingrandimento, brusca, un po’ imbronciata, come se fosse dispiaciuta perché non riusciva a curarli una volta per tutte. E se loro gemevano, perché li toccava in qualche punto sensibile, si fermava, spostava un po’ indietro il tronco, aspettava un secondo apparentemente distratta e tornava all’attacco.
Approfittai per svignarmela, perché già vivevo in pieno l’insicurezza in relazione a tutto quello che mi aveva riportato all’ospedale. Nel parcheggio, manovrando con difficoltà la vettura per non colpire nessuno degli ostacoli presenti, sentivo, per proteggermi, che alla fine il sogno forse non avesse grande importanza, che si spiegava in definitiva solo per qualche ricordo diurno, e che, adesso che l’occhio vedeva e sembrava adattarsi di nuovo alla sua funzione, sarebbe stato meglio dedicarmi a un’attività esterna, una ginnastica, ad aiutare gli altri, alla vita di relazione. Questa è un’idea che ha il suo fondamento, poiché sono gli stessi medici a dire che la maggior parte delle infermità finisce per sfumarsi. Col passar del tempo era svanita molta dell’intensità del sogno. E sapere che c’era chi potesse interpretarlo era già abbastanza una consolazione.
Continuai, quindi, a vivere con i miei coinquilini, e anche con rinnovato entusiasmo, cercando di stabilire altri punti di contatto al di là della mera residenza. Ci fu lì un interregno in cui si andava al cinema insieme, si incoraggiava lo scambio di amici, ma presto ognuno ritornò alla sua propria routine e ci si accontentò degli incontri occasionali alle porte del frigorifero. I sogni, intanto, non solo non si calmavano, quasi diventavano ogni volta più feroci, anche loro rinnovati, e presentando la curiosa caratteristica di avere alcuni contenuti diversi, ma sempre la stessa forma.
Ho un vago ricordo dei miei ultimi tempi nella casa infestata. E siccome sono convinta che un ricordo vago è segno di un’esperienza di caos, e dalla conseguenza induco scientificamente la causa, concludo che devono essere stati veramente confusi e sgomenti quei mesi. Credo di ricordare schermaglie, quasi conflitti, un malessere, orari studiati al minuto affinché non ci fossero incontri nel corridoio di casa. Vivere nello stesso spazio, contemplare dalla stessa prospettiva lo stesso retro, questo richiedeva protocolli passivi di revisione costante. Paulo, a primavera, si innamorò e lasciò libera la stanza, in cui, in seguito, ci fu una sequenza vertiginosa di occupanti; Jonas vinse una Borsa e scomparve da qualche parte in Europa e Márcio, comprovato che in Portogallo non si facesse carriera da pagliaccio, emigrò a Barcellona, dove lo incontrai, per pura coincidenza, in cima alla Rambla, alcuni anni dopo.
Non fu, pertanto, né per caso, né per necessità, ma per un ordine di cause ancora da identificare, che mi trovai di nuovo alla porta dello studio di Lúcia Pinheiro nel reparto di oculistica dell’ospedale. Mi sentivo come una ferrea intellettuale di sinistra che si dirige in ginocchio a Ftima in pellegrinaggio. Occupatissima, mi porse un bigliettino con l’indirizzo e disse che sarebbe stata a casa domenica mattina.
Era un quartiere normale, di ville degli anni sessanta, con alle spalle strade di media lunghezza. Le campane di una chiesa vicina suonavano, era un giorno di sole intenso, tutto sembrava in rilievo. Quando girai l’angolo la vidi uscire dal palazzo, scalza, correndo in direzione della chiesa mentre si metteva sgraziata un fazzoletto di lana nero in testa. Per i miei calcoli e la mia esperienza, sapevo quanto fosse difficile legare al mento un fazzoletto che non ha le dimensioni appropriate. E non potei fare a meno di rimanere ansiosa, nonostante la difficoltà, in fin dei conti, riguardasse solo lei.
Era vestita come una minhota, con una gonna corta e le gambe nude. La inseguii da molto vicino, per la strada, indecisa tra salire sul marciapiede o mantenermi sull’asfalto. La gonna pesante le batteva sulla piega delle gambe al ritmo della corsa. Riuscii a raggiungerla. Ancora correndo le dissi che dovevo aver fatto una nuova lesione nell’occhio e che avevo bisogno di un medico. Lei si girò, nervosa, in ritardo, con orecchini e collane intorno al collo, da cui pendeva un cuore d’oro carnoso e gozzuto come un embrione. Già ai piedi della scalinata della chiesa mi disse che in quel momento non poteva prestarmi attenzione, che doveva andare a messa, e mi chiese di aspettarla davanti alla porta di casa.
Mi sembrò, allora, evidente che avrei dovuto trasferirmi lì. Sognare in quella casa quello che ci fosse da sognare e risolvere il problema una volta per tutte. Così, chiusi la casa precedente, preparai l’essenziale in uno zaino e le bussai alla porta alla fine del giorno. Lei mi sistemò in una dependance, per non interferire con la vita di tutti i giorni. Lì stetti bene, riuscii a terminare il racconto che era fermo da mesi. Solo per questo credo che valse la pena il cambiamento. Ma i sogni si fermarono, a volte afferravo il barlume di un’immagine, una pulsazione che rimaneva dopo il risveglio, un fantasma o un altro. Un giorno sognai nitidamente la dependance in cui vivevo. Mi svegliai scoraggiata. Cercai Lucia in soggiorno e le raccontai dettagliatamente come avevo visto la chiarezza istantanea e fugace delle forme pregnanti del mio letto basso, della mensola curva di libri, della scrivania dove stava la macchina da scrivere, come se fossero nate e si staccassero dalle pareti dove erano diventate, nel tempo, evidenti e amorfe.
Lúcia ascoltava attenta, in quel modo che aveva di dedicarsi totalmente all’occupazione del presente e, alla fine, mentre io aspettavo, impaziente, il manifestarsi superiore di un’altra intelligenza, lei si mise a ridere. E chiusa a riccio nell’intimità che si era costruita negli ultimi mesi, commentò semplicemente che ero davvero sciocca.
Spesso, già in macchina e diretta verso un posto qualsiasi, mi passa per la mente che la casa in cui vivo adesso sia appena esplosa. O mi sono dimenticata il gas aperto, o l’olio è caduto nell’acqua, o la casa ha raggiunto il punto massimo di contenimento ed è scoppiata, spargendo i manoscritti tutt’intorno. Altre volte, scendendo l’ultima rampa che mi riporta a casa, e se succede, ancora più per caso, di incrociare un’ambulanza, mi viene in mente che la casa è bruciata, o brucia ancora, in questa stessa esplosione a cui non pensavo alla partenza. Oggi mi sembra che il sogno che mi spaventò non fu né predizione del futuro, né sintomo del passato, né segno dei cieli, ma la vita in se stessa che mi fece visita in quella notte.